Thursday, December 18, 2014

una grande associazione internazionale- Slow Food

Che cos’è Slow Food Slow Food è una grande associazione internazionale no profit impegnata a ridare il giusto valore al cibo, nel rispetto di chi produce, in armonia con ambiente ed ecosistemi, grazie ai saperi di cui sono custodi territori e tradizioni locali. Ogni giorno Slow Food lavora in 150 Paesi per promuovere un’alimentazione buona, pulita e giusta per tutti. Oggi Slow Food conta su una fitta rete di soci, amici e sostenitori in tutto il mondo grazie e con i quali: Difendiamo il cibo vero Un cibo che cessa di essere merce e fonte di profitto, per rispettare chi produce, l’ambiente e il palato! Promuoviamo il diritto al piacere per tutti Con eventi che favoriscono l’incontro, il dialogo, la gioia di stare insieme. Perché dare il giusto valore al cibo, vuol dire anche dare la giusta importanza al piacere, imparando a godere della diversità delle ricette e dei sapori, a riconoscere la varietà dei luoghi di produzione e degli artefici, a rispettare i ritmi delle stagioni e del convivio Ci prepariamo al futuro Che ha bisogno di terreni fertili, specie vegetali e animali, meno sprechi e più biodiversità, meno cemento e più bellezza. Conoscere il cibo che si porta in casa, può aiutare il pianeta. Ecco perché Slow Food coinvolge scuole e famiglie in attività ludico didattiche, tra cui gli orti nelle scuole e i 10 000 orti in Africa Valorizziamo la cultura gastronomica Per andare oltre la ricetta, perché mangiare è molto più che alimentarsi e dietro il cibo ci sono produttori, territori, emozioni e piacere Favoriamo la biodiversità e un’agricoltura equa e sostenibile Dando valore all’agricoltura di piccola scala e ai trasformatori artigiani attraverso il progetto dei Presìdi Slow Food, e proteggendo i prodotti a rischio di estinzione con l’Arca del Gusto Che cosa facciamo Slow Food lavora in tutto il mondo per tutelare la biodiversità, costruire relazioni tra produttori e consumatori, migliorare la consapevolezza sul sistema che regola la produzione alimentare. In una visione che parte delle radici per arrivare alle nostre tavole, promuoviamo il diritto alla terra e sosteniamo i diritti della terra grazie a tantissime iniziative che partono dalle Condotte Slow Food (le associazioni locali) fino a progetti di portata internazionale, tra cui: 10.000 orti in Africa Nelle scuole, nei villaggi e nelle periferie delle città coltiviamo 10 000 orti per creare una rete di giovani che lavorano per salvare la straordinaria biodiversità dell’Africa, per valorizzare i saperi e le gastronomie tradizionali, per promuovere l’agricoltura familiare e di piccola scala Scopri il progetto deo 10.000 orti in Africa > Educazione alimentare, sensoriale e del gusto Coinvolge adulti e bambini presentando cibo con tutte le sue valenze culturali, sociali e naturalmente organolettiche. Con gli Orti in Condotta si avvicinano scolari e famiglie alla cultura alimentare, si impara il valore di semi e frutti, a tutelare le risorse della terra, per poi scegliere ciò che mangiamo in base alle nostre esigenze e non secondo quelle del mercato. I Master of Food sono un percorso educativo innovativo e originale, basato sul risveglio e l’allenamento dei sensi, sull’apprendimento di tecniche produttive del cibo e sulla degustazione come esperienza formativa. Vai al sito di Slow Food Educazione > Terra Madre Terra Madre è il sogno che diventa realtà, la globalizzazione positiva che dà voce a chi non si rassegna al modello omologante imperante. Oltre 2000 Comunità del cibo in tutto il mondo operano perché la produzione del cibo mantenga un rapporto armonico con l’ambiente e per affermare la dignità culturale e scientifica dei saperi tradizionali. Linfa di questa rete sono gli incontri regionali tenuti in tutti i continenti, per culminare nel Salone del Gusto e Terra Madre di Torino in una grande festa diventata il più importante appuntamento mondiale dedicato al cibo. Vai al sito di Terra Madre > Fondazione Slow Food per la Biodiversità Onlus Con la Fondazione Slow Food per la Biodiversità Onlus coordiniamo progetti che difendono le tradizioni locali, proteggono le comunità che nascono attorno al cibo, promuovono la sapienza artigiana. Oggi la Fondazione promuove e tutela 400 Presìdi Slow Food in tutto il mondo e 1000 prodotti dell’Arca del Gusto. Vai al sito della Fondazione Slow Food per la Biodiversità > Mercati della Terra Una rete internazionale fatta di trasformatori e contadini uniti da valori e regole condivisi tra loro e Slow Food. Un luogo dove incontrarsi, conoscersi, mangiare in compagnia e trovare prodotti locali e di stagione, presentati solo da chi produce quello che vende. 

Con spazi per i più giovani, per l’educazione del gusto, per gli eventi. Vai al sito dei Mercati della Terra > Salviamo il paesaggio Slow Food Italia fa parte del forum italiano dei movimenti per la terra e il paesaggio, un aggregato di associazioni e cittadini che lavorano per tutelare il territorio italiano dalla deregulation e dal cemento selvaggio. Perché negli ultimi 30 anni abbiamo cementificato un quinto dell’Italia, circa 6 milioni di ettari. Perché in Italia ci sono 10 milioni di case vuote, eppure si continua a costruire. Perché i suoli fertili sono una risorsa preziosissima e non rinnovabile. E li stiamo perdendo per sempre. Vai al sito di Salviamo il Paesaggio > Slow Food Editore Per favorire la consapevolezza del consumatore, promuovere un’agricoltura pulita, e intrattenere con ricette e proposte gastronomiche, e diffondere e amplificare il messaggio della chiocciola, nel 1990 nasce Slow Food Editore. Il secondo anno di attivitá pubblica il best-seller Osterie d’Italia – Sussidiario del mangiarbere all’italiana, per poi proseguire con un percorso editoriale che affianca l’evoluzione dell’associazione e oggi conta oltre cento titoli Vai alla pagina di Slow Food Editore > Università degli Studi di Scienze Gastronomiche di Pollenzo Nata e promossa nel 2004 da Slow Food con la collaborazione di Piemonte ed Emilia Romagna, è un’università privata legalmente riconosciuta. I percorsi di studio proposti, sono studiati per dare dignità accademica al cibo interpretato come fenomeno complesso e multidisciplinare attraverso lo studio di una rinnovata cultura dell’alimentazione. La nostra storia Movimento per la tutela e il diritto al piacere Nata Arcigola e fondata in Piemonte nel 1986 da Carlo Petrini, Slow Food diventa internazionale nel 1989 come «Movimento per la tutela e il diritto al piacere» e un manifesto d’intenti che pone l’associazione come antidoto alla «Follia universale della “fast life”» e «Contro coloro, e sono i più, che confondono l’efficienza con la frenesia, [a cui] proponiamo il vaccino di un’adeguata porzione di piaceri sensuali assicurati, da praticarsi in lento e prolungato godimento». Si iniziava dalla tavola, dal piacere garantito da convivialità, storia e cultura locali, per arrivare a una nuova gastronomia che presuppone anche una nuova agricoltura dove la sostenibilità (ambientale e sociale) è imprescindibile. Oggi rinnoviamo la fiducia nel diritto al piacere che ci ha portati a salvaguardare biodiversità e tradizioni, a educare al gusto e all’alimentazione consapevole, a organizzare il Salone del Gusto e Terra Madre, il più grande appuntamento internazionale dedicato al cibo, a fondare l’Università di Scienze Gastronomiche e a tessere la tela della grande rete delle Comunità del cibo di Terra Madre. Una prima esplicita dichiarazione d’intenti arriva con la nascita di Slow Food Editore che nel 1990 pubblica il best seller della nostra casa editrice: Osterie d’Italia, sussidiario del mangiarbere all’Italiana, che ancora oggi ci guida alla scoperta della migliore tradizione gastronomica del nostro Paese. Intanto l’organizzazione cresce: nello stesso anno con il congresso di Venezia si costituisce ufficialmente l’associazione Slow Food e gli anni successivi arrivano le sedi di Berlino (1992) e Zurigo (1993). Dal 1994 si lavora a più non posso: con Milano Golosa si sperimentano i primi Laboratori del Gusto, una formula a quei tempi avanguardistica per imparare, degustare e scoprire prodotti e divertendosi. La prima edizione del Salone Internazionale del Gusto (a novembre 1996) si rivela una bellissima festa, occasione, tra l’altro, per presentare l’Arca del Gusto, il grande catalogo mondiale che raccoglie i sapori tradizionali che stanno scomparendo. Con il convegno Dire fare gustare si apre il progetto di educazione alimentare e del gusto di Slow Food e nello stesso anno, inauguriamo a Bra (Cn), la prima edizione di Cheese – Le forme del latte, la rassegna biennale internazionale dedicata ai formaggi e che ogni due anni accoglie e riunisce centinaia produttori italiani e stranieri che grazie a Cheese hanno costruito una fitta rete di relazioni. Diventiamo ecogastronomi Intanto va sviluppandosi quella sensibilità ambientale che negli anni darà nuova linfa, contenuti e idee all’associazione, perché «Per dirla tutta: un gastronomo che non ha sensibilità ambientale è uno stupido; ma un ecologista che non ha sensibilità gastronomica è triste nonché incapace di conoscere le culture su cui vuole operare. Meglio l’ecogastronomia dunque» dichiara Carlo Pettini in Buono, pulito e giusto (Einaudi, Torino 2005) inaugurando una nuova prospettiva con cui guardare il sistema di produzione alimentare. «Le culture tradizionali hanno creato un patrimonio gigantesco di ricette, preparazioni, trasformazioni dei cibi locali o di facile accesso. Anche nelle zone del mondo più colpite dalla malnutrizione. Questi saperi gastronomici sono strettamente connessi con la biodiversità e rappresentano sia il modo per utilizzarla, sia il modo per difenderla. In più danno piacere, organolettico e anche intellettuale, perché simbolo di una cultura identitaria.» È il 2000 quando prende il via il progetto dei Presìdi Slow Food, interventi mirati per salvaguardare o rilanciare piccole produzioni artigianali e tradizionali a rischio di estinzione. Un programma supportato dalla prima edizione (Bologna 2000) del Premio Slow Food per la difesa della biodiversità, in un percorso che ha come traguardo la Fondazione Slow Food per la Biodiversità Onlus nata nel 2003 per sostenere Presìdi Slow Food e l’Arca del Gusto. Oggi la Fondazione è capofila dei tanti progetti Slow Food pensati per difendere e supportare sovranità alimentare e biodiversità. L’impegno politico continua e in Slow Food lancia la campagna No Gm Wines, contro la commercializzazione in Europa di viti transgeniche, e stila il Manifesto in difesa dei formaggi a latte crudo. Il percorso di educazione si potenzia con il varo dei Master of Food, corsi di educazione sensoriale pensati per gli adulti e con la decisione del quarto congresso internazionale (Napoli 2003) di lavorare affinché ogni Convivium, le sedi locali dell’associazione nel mondo, possa progettare l’avvio di School Gardens. Dall’ecogastronomia alla neogastronomia: la rivoluzione di Terra Madre Nel 2004, la Fao riconosce ufficialmente Slow Food come organizzazione no profit con cui instaurare un rapporto di collaborazione. Si inaugura la rinnovata Agenzia di Pollenzo (Cn) che ospita la prima Università di Scienze Gastronomiche al mondo riconosciuta dal nostro Ministero. Genova ospita la prima edizione di Slow Fish, rassegna dedicata al pesce e alla pesca sostenibile. Ma il 2004 è soprattutto l’anno di Terra Madre: per la prima volta a Torino si incontrano cinquemila delegati da 130 Paesi: contadini, pescatori, artigiani, nomadi, giovani, vecchi, musicisti, cuoche e cuochi, accademici di tutto il mondo riniti in una tre giorni di laboratori, incontri, scambi, esperienze e festa. Terra Madre è il nuovo soggetto al servizio del pianeta, rappresenta ciò che è stato definito come “glocalismo”: una serie di piccole azioni locali che hanno grandi ripercussioni a livello mondiale. Slow Food è ciò che siamo e Terra Madre ciò che facciamo. Nel 2006 Slow Food compie 20 anni e festeggia in occasione del VI Congresso Nazionale di Slow Food Italia a Sanremo, dove si battezza e dà l’avvio al progetto Orto in Condotta. L’anno seguente Slow Food Italia aderisce alla coalizione ItaliaEuropa – Liberi da Ogm che raccoglie oltre 3,6 milioni di Sì con la consultazione nazionale sul tema “Vuoi che l’agroalimentare, il cibo e la sua genuinità, siano il cuore dello sviluppo, fatto di persone e territori, salute e qualità, sostenibile e innovativo, fondato sulla biodiversità, libero da Ogm?”. A Montpellier Slow Food organizza la prima edizione di Vignerons d’Europe, meeting di vignaioli da tutto il continente. A Puebla, in Messico, il quinto congresso internazionale di Slow Food riunisce 600 delegati. Nel 2008 la rete di Terra Madre organizza meeting in Etiopia, Irlanda e Olanda che culminano nella terza edizione del meeting torinese che si svolge in concomitanza del Salone Internazionale del Gusto. Nello stesso anno nascono i Mercati della Terra, rete mondiale di mercati contadini. Seconda festa nazionale degli Orti in Condotta. Gli incontri regionali di Terra Madre continuano l’anno seguente in Tanzania, Argentina, Bosnia, Norvegia e Austria. Il 10 dicembre (ventennale dell’associazione internazionale) si tiene in tutto il mondo la prima edizione del Terra Madre Day, uno dei più importanti eventi collettivi di celebrazione del cibo buono, pulito e giusto. Più di 1000 appuntamenti in 150 Paesi hanno coinvolto oltre 2000 comunità del cibo e circa 200 000 persone. Nel 2010, mentre Slow Food Italia va a congresso per la settima volta, in Bulgaria si riuniscono per la prima volta le Comunità del cibo dei Balcani Terra Madre Balcani. Nel 2011 Slow Food compie 25 anni: in 300 piazze d’Italia si festeggia lo Slow Food Day. Prende avvio Slow Food Europe la nuova campagna nata per promuovere la sostenibilità, la protezione della biodiversità e supportare le produzioni di piccola scala. A Jokkmokk, in Svezia, per la prima volta si riuniscono le comunità del cibo di Terra Madre Indigenous. Durante l’incontro è stato firmato l’accordo di Jokkmokk, una dichiarazione per ribadire i diritti dei popoli indigeni. Nel 2012 abbiamo fatto un’ulteriore passo per porci come soggetto politico internazionale: il Salone Internazionale del Gusto ha aperto le porte a Terra Madre dando vita a un unico evento, unico nel suo genere, capace di accogliere e diffondere le istanze di migliaia di Comunità che in tutto il mondo si impegnano per dare il via a un nuovo paradigma che pone produttori, consumatori e prodotti al centro di un sistema che sfugge le logiche del profitto. Oggi ancora con più determinazione di ieri vogliamo metterci a fianco degli agricoltori, a partire dalle Comunità del cibo che già operano nella rete di Terra Madre ma anche da quelle che ancora non ne fanno parte e che non vediamo l’ora di accogliere. Per questo vogliamo lavorare per rafforzare questa rete, con i suoi progetti, con il lavoro quotidiano dei suoi collaboratori e dei suoi volontari. Quale allevamento per quale benessere 18/12/2014 Allevamenti intensivi Circa 32mila volatili sono stati abbattuti in un allevamento di Porto Virno, a cinquanta chilometri a sud di Venezia, a causa di un’epidemia di influenza aviaria del ceppo H5N8. Vi diciamo subito che il virus è mortale per gli animali, ma rappresenta un rischio molto basso per gli uomini. Non vogliamo creare panico ma richiamare la vostra attenzione su un altro punto. La diffusione di questo virus su larga scala avviene quando entra negli allevamenti intensivi. Un fattore fondamentale capire come arginare l’epidemia e iniziare a ragionare seriamente su che tipo di allevamento vogliamo. Ancora una volta sotto accusa ci sono tipi di allevamento che, oltre a stressare (per usare un eufemismo) gli animali, risultano pericolosi per gli uomini e assolutamente indecenti per l’ambiente. Per tornare a Porto Virno vi diciamo anche che si sta cercando di bypassare e attribuire le responsabilità a fattori esterni. In questo caso gli uccelli selvatici: «Anche se l’origine del contagio da parte degli uccelli selvatici non è da escludere, non può però essere considerato la causa principale della diffusione del virus. Infatti, bassi livelli di influenza aviaria sono naturalmente presenti negli uccelli selvatici, ma la diffusione su larga scala viene in un certo modo limitata grazie al loro migliore sistema immunitario e alle migliori condizioni degli ambienti in cui vivono, in cui non sono, a differenza dei volatili allevati in modo intensivo, ammassati gli uni sugli altri a densità altissime» ben spiega l’associazione CIWF Italia Onlus che lavora per la protezione e il benessere degli animali negli allevamenti. Insomma, qui non si tratta di capricci da elitari radical chic, né di eccessiva sensibilità animalista. Non possiamo più rimanere indifferenti e ignorare che il benessere degli animali che sono destinati alla nostra nutrizione è legato alla salute pubblica, alla sicurezza alimentare e alla tutela dell’ambiente. Dobbiamo metterci in testa che le condizioni di allevamento intensivo rende gli animali più vulnerabili alle malattie. Ed è per questo, che spesso, gli animali allevati, meglio dire ingrassati industrialmente, vengono sottoposti a intervalli regolari a iniezioni di vaccini e antibiotici, sostanze potenzialmente nocive per chi ne consumerà la carne. Non solo. L’industria della carne costituisce una grave minaccia per la sopravvivenza di quegli allevatori di piccola scala che non riescono a reggere la competizione con i grandi produttori e con i bassi prezzi della produzione seriale di carne. Che cosa possiamo fare noi ogni giorno? Il nostro non è un invito a rinunciare al consumo di carne, ma di scegliere: le nostre decisioni possono incidere su un cambiamento in positivo del sistema alimentare globale. E, parlando di carne, possiamo fare davvero molto. Qualche consiglio: 1. Consuma meno carne ma di migliore qualità. Se eviti la carne proveniente dagli allevamenti intensivi e se scegli carne prodotta secondo standard elevati di benessere animale, avrai già fatto tantissimo. E aumenta i consumi di legumi e vegetali. 2. Scegli specie e razze diverse. In Europa si consumano prevalentemente suini e pollame; negli Stati Uniti bovini; in oriente avicoli… Se la domanda dei consumatori si concentra sulle stesse tipologie, solo una produzione di tipo intensivo potrà accontentarli. Variare la scelta significa allentare la pressione su determinati tipi di animali. 3. Scegli tagli diversi e impara a fare acquisti meno convenzionali. Un bovino non è fatto solo di “bistecche” e un pollo non è fatto di solo petto. La concentrazione della domanda sugli stessi tagli determina elevati sprechi alimentari, e tutta la carne sprecata determina… un aumento spropositato della domanda di nuovi animali da allevare. Riscoprire le ricette tradizionali ti aiuterà a capire che a ogni taglio corrispondono ricette specifiche, in grado di valorizzarlo al meglio. 4. Diffida di prezzi troppo bassi, perché spesso sono indice di una pessima qualità dell’alimentazione somministrata agli animali, di sfruttamento, di costi nascosti che ricadono sull’ambiente o ancora delle pessime condizioni lavorative applicate negli allevamenti e nei macelli industriali. 5. Ricordati che locale è meglio. Anche quando acquisti la carne, verificane sempre la provenienza ed evita quella di importazione. 6. Leggi bene le etichette che possono fornire informazioni utili, sul tipo di carne che stai mangiando. L’etichetta narrante dei Presìdi Slow Food, ad esempio, dà molte informazioni utili sulle caratteristiche della razza, su dove e come viene allevata, sulla sua alimentazione e sulla macellazione. Se non hai tempo per leggere, almeno informati dal tuo macellaio sulla specie di animale che stai acquistando. 7. Metti il benessere animale al primo posto. Per farlo, affidati a consorzi, associazioni o aziende che adottano disciplinari rigorosi sull’alimentazione e il benessere degli animali. 8. Non riempire troppo il tuo carrello. Per l’acquisto di carne fresca limitati a comprare quel che consumerai nel breve periodo. 9. Sii curioso. Chiedi al tuo macellaio carne di qualità e stimolalo a scegliere quella di animali allevati nel rispetto del loro benessere. Concediti, se puoi, qualche “gita” in fattoria, di tanto in tanto. Sarà utile per capire come vengono allevati gli animali, cosa mangiano, a che età vengono macellati. 10. Fa’ che la rinuncia sia piacevole. Mangiare meno carne non è una condanna: ne guadagna la tua salute, quella dell’ambiente e il benessere animale. Ricordati di “sostituirla” con alimenti gustosi e di stagione, e non ne sentirai troppo la mancanza. Per approfondire puoi consultare la nostra sezione dedicata alla carne e la posizione di Slow Food sul benessere animale A cura di Michela Marchi Se il Parmigiano reggiano costa meno dello stracchino 17/12/2014 Domenica 14 dicembre una bella pagina di Repubblica a firma Jenner Meletti e corredata da un commento di Carlo Petrini (che riprendiamo per intero) ci segnala l’ennesima distorsione di un mercato che fagocita e ben poco restituisce a chi lavora con dedizione, impegno, responsabilità. Veniamo subito al dunque e riportiamo pochi numeri che ben inquadrano il problema: negozio InCoop, centro di Bologna. Mozzarella Vallelata, 10,16 euro al chilo. Mozzarella Santa Lucia, 11,36. Stracchino cremoso Granarolo 14,65. E il Parmigiano Reggiano? Nella grande distribuzione, spunta prezzi civetta di 9-10 euro al chilo. «Nel 2012 il formaggio stagionato fra i 12 e i 24 mesi ci veniva pagato 9 euro. L’anno scorso la media è stata di 8 euro. In questo 2014 non supereremo i 7 euro. Per il nostro lavoro servono puntualità e tanta, troppa pazienza» racconta a Repubblica Giorgio Affanni, allevatore di 130 capi con 60 vacche in mungitura. Che cosa sta succedendo? Ancora una volta ricorriamo ai numeri per chiarirci le idee: «Da tre milioni di forme prodotte – raccontano Cristiano Fini e Antenore Cervi, presidenti della Cia, Confederazione italiana agricoltori, a Modena e Reggio Emilia – siamo passati a tre milioni e trecentomila. E questo ha messo in crisi il mercato perché l’offerta ha superato la domanda. Con la crisi economica, inoltre, il reddito delle famiglie è diminuito. Per questo il Consorzio del Parmigiano Reggiano ha deciso, per il 2015, di “tagliare” la produzione di latte di 800.000 quintali, pari al 5% del totale. Le forme in meno saranno 150.000». Purtroppo non è solo l’over produzione a indebolire il comparto, ma ci si mette anche la distribuzione. Negli spacci aziendali dei caseifici viene commercializzato solo il 10% del prodotto, con prezzi che vanno da 10 ai 14 euro, quasi il doppio di quelli all’ingrosso. Le vendite all’estero continuano ad andare bene e hanno raggiunto il 30% del totale, ma questo mercato è in gran parte in mano agli esportatori che hanno comprato spendendo il minimo. «I sintomi di una crisi del Parmigiano reggiano sono evidenti da anni a tutti i livelli della filiera produttiva. Chiusura di stalle e caselli, prezzi sempre meno remunerativi, sconforto dei produttori, non sono segnali passeggeri, ma effetti che tendono a diventare un problema per molto tempo e, quindi, a compromettere il futuro di questo straordinario patrimonio. Come contraltare l’effluvio di parole e balle sul Made in Italy e l’ostentazione gourmettista di elogi sui media. Una schizofrenia insopportabile per ogni persona che ha a cuore il destino di questo storico formaggio e il benessere di una vasta comunità di produttori. Servirebbe una seria e approfondita analisi del problema a partire dalla comunicazione e dall’educazione dei consumatori. Il Parmigiano reggiano non può competere con forme di marketing di tipo industriale; deve saper esaltare le eccellenze, anche se di piccola scala. Il Parmigiano reggiano non è tutto uguale e, quindi, va valorizzata con più determinazione l’alta qualità rispetto al prodotto medio. Una scala di valori e di prezzi rispetto alla qualità non può che far bene. Una produzione semi-anonima (non basta il numero del casello inciso sulla forma) non serve a posizionare le partite a prezzi giusti. Se il Barolo o il Chianti non fossero distinti per territorio, vigna, produttore e annata, e tutto fosse genericamente Barolo o Chianti, i nostri vigneron non avrebbero gli occhi per piangere e sarebbero in balìa di commercianti senza scrupoli. La diversità del prodotto è la base della sua fortuna e genera, se ben retribuita, l’ambizione di lavorare con più attenzione verso l’eccellenza. Poi, a questo punto, si potrà spiegare ai cittadini consumatori il valore nutrizionale di questo formaggio che non ha pari al mondo e non può essere usato solo grattugiato. Forse è giunto il tempo del cambiamento e di capire l’insostenibilità di questa carenza di valore e di prezzi risibili. Parafrasando il grande Gino Bartali sul fronte dell’informazione e del marketing del Parmigiano reggiano si potrebbe dire: L’è tutto sbagliato, l’è tutto da rifare!». Carlo Petrini, da La Repubblica del 14 dicembre 2014 Dimmi che bio scegli e ti dirò chi sei 16/12/2014 Immaginiamo che gran parte di voi abbia visto la puntata di Report sul bio (sì, dai, ci torniamo anche noi) e allo stesso modo immaginiamo che la maggior parte di coloro che hanno impiegato così la propria domenica sera non abbiano visto soddisfatte le proprie aspettative. Per chi è più che interessato a quello che mangia, a come viene prodotto, a trovare un cibo buono per sé, per l’ambiente e per chi lo produce, non serve forse un servizio giornalistico che, se ha avuto il merito di insinuare il dubbio e sollecitare più controlli, non offre rifugio al consumatore finale. La regola per noi è sempre la stessa: cerchiamo di conoscere chi ci offre il cibo che portiamo in tavola, siamo curiosi, non temiamo di tediare il nostro spacciatore di verdurine di fiducia con mille domande e oltre al naso e alla bocca usiamo la testa. Presuntuosi? Direi piuttosto prudenti e interessati. E non mi venite a dire che non avete tempo perché conosco mamme con prole frignante al seguito che, nonostante il lavoro full time, riescono a organizzare incursioni al mercato, a scovare gruppi d’acquisto di ogni specie e a non impazzire. Le rese del bio raggiungono quelle del convenzionale Tornando a Report, forse un po’ più di approfondimento da una trasmissione di quel livello (che pur ha avuto il merito di svegliare il can che dorme soprattutto in Piemonte), sarebbe stato gradito. Certo, vale mettere in guardia dalle truffe (ma sul marketing del packaging dei cosmetici, nessuna novità, ci pare, no?), ma possibile che siano tutti imbroglioni? L’aspetto su cui ci piacerebbe invece soffermarci è un altro. Possibile che si debba dimostrare a suon di certificati – con costi indecenti e processi burocratici svilenti – di essere completamente naturali? Questo onere non dovrebbe invece ricadere su chi produce inquinando, proponendo un prodotto arricchito da tossine e veleni? Perché lo sforzo debbono farlo i virtuosi? Domanda retorica, va bene, ma sarebbe bello che i consumatori pretendessero altro, considerato che siamo noi a tenere su il Mercato. Già che stiamo parlando di bio, volevamo segnalare ancora altri due notiziole. O meglio, studi che sostengono come le coltivazioni biologiche potrebbero nutrire il mondo. Quello pubblicato dalla Royal Society il 10 dicembre mostra come le rese dell’agricoltura bio possano raggiungere quelle dell’agricoltura convenzionale. Senza utilizzare quantità smisurate di pesticidi e fertilizzanti sintetici che soffocano gli ecosistemi marini con fioriture di alghe pestifere. Questa ricerca, opera della prestigiosa Università di Berkeley in California, dimostra come la differenza di rese tra colture biologiche e convenzionali, se si rispetta la rotazione stagionale, può raggiungere la soglia dell’8%, percentuale decisamente inferiore rispetto al 25% stimato in precedenza. Se quanto affermano gli studiosi californiani fosse vero, significherebbe che le coltivazioni bio possono sfamare il pianeta. Prima degli applausi, però, vorrei invitarvi a una riflessione. Le maggiori rese non aiuteranno a combattere fame e obesità (l’assurdo paradosso che viviamo con sfacciata indifferenza), soprattutto perché in realtà la maggior parte delle colture finiscono con alimentare allevamenti e auto, non le persone. Negli Stati Uniti infatti, più di tre quarti delle calorie prodotte dalle aziende agricole è destinato all’allevamento e ai combustibili biologici. Insomma il punto è sempre lo stesso: la fame zero si raggiunge aumentando l’accesso al cibo, non aumentando le rese… Dati alla mano, allora, quanto ci serve l’agricoltura industriale a sfamarci? Il problema non è quindi coltivare di più, ma garantire alle comunità accesso al cibo e sovranità alimentare. La strada, non ci stanchiamo di ribadirlo, è quella dell’agricoltura familiare. Puntiamo sull’agricoltura familiare E ancora una volta non siamo i soli a sostenerlo: un recente sondaggio a cura di Grain che, grazie a una corposa base dati raccolti in tutto il mondo, mette in luce come sono i produttori di piccola scala a sfamare il mondo e lo fanno utilizzando solo il 24% della superfice coltivabile, o il 17% se si escludono Cina e India. E come fanno questi contadini a sfamarci tutti coltivando una superficie così irrisoria? Il paradosso è che le piccole aziende agricole spesso sono molto più produttive di quelle grandi. The Ecologist ci informa che se i rendimenti delle piccole aziende keniote fossero messe nelle stesse condizioni delle produzioni su larga scala, la produzione raddoppierebbe. In America Centrale triplicherebbe. Se le rendita delle mega aziende in Russia raggiungesse i risultati di quelle piccole, la produzione aumenterebbe di sei punti. Insomma, crediamoci. Con un po’ più di impegno e interesse possiamo davvero migliorare il mondo con la forchetta. Il bio costa troppo e non ci fidiamo per via dei “biofurbetti”? Chiediamo, informiamoci e valutiamo le nostre priorità d’acquisto. Michela Marchi Lima: un’altra occasione persa 15/12/2014 «Riunire le delegazioni di 195 Paesi per discutere di clima e uscire dopo due settimane con un documento debolissimo che rinvia l’appuntamento a Parigi 2015 vuol dire aver perso un’occasione adesso, rimandando di un ulteriore anno interventi tardivi già decenni fa». È questo il commento di Gaetano Pascale, presidente di Slow Food Italia, sulla conferenza Onu di Lima sui cambiamenti climatici (Cop20) che dopo giorni di dibattito si è conclusa ieri a notte fonda, con l’ennesimo compromesso. Il motivo di queste continue insicurezze, accordi tampone e temporeggiamenti è noto ormai da anni, raggiungere un equilibrio tra i tetti di Co2 emessi dai Paesi del Nord del mondo e quelli delle industrie in via di sviluppo: «I Paesi industrializzati devono assumersi le proprie responsabilità e accettare il maggior peso derivante dalla riduzione di gas serra a disposizione, accompagnando le industrie del Sud del mondo in una crescita sostenibile», continua Pascale. «Tuttavia voglio concludere con un messaggio positivo, auspicando che si arrivi a Parigi 2015 con un accordo che non sia il frutto di un compromesso ma che impegni i Paesi a prendere provvedimenti davvero seri e quantificabili». Ed effettivamente così dovrebbe essere dato che, sulla base dell’accordo sottoscritto a Lima, i Paesi dovranno presentare all’Onu entro il 1° ottobre 2015 impegni «quantificabili» ed «equi» di riduzione delle emissioni, oltre a una dettagliata informazione sulle azioni da seguire. È poi previsto che gli esperti della convenzione del cambiamento climatico (Ipcc) esaminino l’impatto di tali misure per ogni singolo Paese per verificare se sono sufficienti affinché la temperatura non salga oltre i due gradi in più rispetto a prima della rivoluzione industriale. Sulla base del documento approvato, i Paesi firmatari s’impegnano a rispettare una serie di azioni in vista di Cop21, il cui obiettivo è l’adozione di un accordo universale e vincolante per limitare il riscaldamento climatico a 2 gradi. «Con Lima è la ventesima volta che le delegazioni si incontrano per discutere di cambiamenti climatici, senza tuttavia giungere a interventi significativi e risolutivi. È un segnale della lentezza con sui si procede nel prendere provvedimenti sul clima. È anche vero che Lima è nata come un appuntamento di transizione perché si punta tutto su Parigi», commenta Luca Mercalli, climatologo e presidente della Società Meteorologica Italiana Nimbus. Come ormai da anni accade, il nodo da sciogliere è il rapporto tra le emissioni dei Paesi industrializzati, quelli che storicamente hanno inquinato per decenni senza alcuna regola, e quelli in via di sviluppo, che per crescere a un ritmo incalzante hanno impiegato le nostre macchine antiquate e altamente inquinanti: «Adesso è necessario, da un lato definire limiti accettabili per ciascun Paese e dall’altro investire affinché anche chi sta cominciando a produrre adesso possa usufruire di tecnologie adeguate e non così impattanti sull’ambiente», prosegue il climatologo. Andando oltre la più stringente attualità, e analizzando questo 20 anni di incontri, «L’accordo dei sogni adesso non è più realizzabile, avrebbe avuto senso se fosse andata bene la conferenza di Rio del 1992, invece ogni anno non si fa altro che aggravare la malattia climatica», continua Mercalli. «Quello che possiamo fare adesso è investire le nostre risorse di cittadini e governi in vista di Parigi 2015 affinché il documento che ne uscirà sia buono. C’è da considerare che siamo già oltre e possiamo solo salvare il salvabile». Il vertice di Lima è cominciato il 1 dicembre 2014, a 9 anni dagli accordi di Kyoto. Intanto, nonostante gli sforzi degli ultimi anni e gli investimenti sulle energie rinnovabili, la crescita delle emissioni di Co2 è aumentata. Questo, però, non significa che non sia possibile un’inversione di tendenza, come afferma Christiana Figueres, segretario esecutivo della Convenzione delle Nazioni Unite sul clima, che non chiude a una speranza per la Terra: «Mai prima d’ora i rischi del cambiamento climatico sono stati così evidenti e gli impatti così visibili. Mai prima d’ora abbiamo visto un tale desiderio a tutti i livelli della società di agire per il clima, e mai prima d’ora la società aveva tutte le politiche e le risorse tecnologiche intelligenti per ridurre le emissioni di gas a effetto serra e favorire la resilienza». Fonte: Misna.it, Corriere.it, Repubblica.it Elisa Virgillito Olio d’oliva italiano cercasi 15/12/2014 Una bottiglia su tre “bevuta” dalla mosca olearia: questa l’immagine che meglio rappresenta il panorama dell’olio italiano. Un momento molto difficile, con un calo della produzione del 37% rispetto al 2013, che raggiunge punte del 45% in Umbria e Toscana. In numeri, parliamo di 300mila tonnellate di olio contro le 464mila del 2013 (dati Istat). Tra le cause principali, un clima instabile, troppo caldo nel periodo di fioritura e umido in estate, aggravato dalle ultime grandinate. Il risultato è amaro: un intero settore agricolo è in ginocchio, l’olio scarseggia e i consumatori devono fare i conti con prezzi più alti e potenziali truffe. Stando alle stime di Coldiretti, le importazioni raggiungeranno i massimi storici: 700mila tonnellate contro le 481mila del 2013. In altre parole, due bottiglie su tre riempite in Italia contengono olio di oliva straniero. Nuove etichette Cosa cambierà con la nuova normativa in vigore dal 13 dicembre? La nuova etichettatura europea metterà in evidenza le diciture sulla provenienza degli oli, garantendo informazioni più trasparenti seppur ancora generiche. Il primo passo nella giusta direzione, anche se il percorso resta lungo. «I produttori che lavorano soprattutto o solo le proprie olive sono comunque penalizzati dal non poter inserire in etichetta tutte le informazioni relative a luogo di produzione e processo produttivo, a meno che non ricadano in aree a Denominazione di Origine Protetta o non ne rivendichino la certificazione», commenta Gaetano Pascale, presidente di Slow Food Italia. «È vero, con la nuova normativa sarà obbligatorio indicare gli Stati, ma non basta. Per noi di Slow Food è fondamentale indicare tutte le informazioni sul processo produttivo dimostrabili dal produttore», conclude Pascale. Tappo antirabbocco È di pochi giorni fa la norma che vieta l’utilizzo delle oliere in ristoranti, pizzerie, mense e bar. Ora sul tavolo dobbiamo avere contenitori etichettati e forniti di dispositivo di chiusura che non possa essere sostituito senza danneggiare la bottiglia. Ma anche su questo aspetto Pascale solleva alcuni dubbi: «L’obbligo di avere bottiglie provviste di etichette nei ristoranti è senza dubbio un fatto positivo, il dispositivo di chiusura però ha un’incidenza significativa, per piccoli numeri, sul costo delle bottiglie». Attenti alle truffe Tra carenza di olio, modi per aggirare la normativa ed etichette poco precise, lo scenario non è per nulla sereno. Quindi occorre fare moltissima attenzione al momento dell’acquisto, perché purtroppo gli escamotage sono molti. Per ridare smalto e colore agli oli vecchi, infatti, qualcuno aggiunge betacarotene e clorofilla, spacciandoli poi per oli di qualità. Vero è che il sapore dovrebbe comunque mettervi in allarme. In ogni caso, però, occhio all’etichetta! Allerta massima da parte del Corpo Forestale dello Stato nei confronti dei trafficanti di olio, che in situazioni come questa possono riuscire a coinvolgere operatori disperati. Secondo la Forestale, si tratta di «colletti bianchi che provano a importare olio straniero o olive da vendere alle aziende in crisi. Senza escludere un potenziale coinvolgimento delle mafie», spiega Amedeo De Franceschi, direttore della divisione sicurezza agroalimentare del Corpo Forestale. Su e giù per l’Italia Vediamo in sintesi qual è la situazione dell’olio italiano, in sofferenza da Nord a Sud, nessuno escluso, dove non ci si aspettava un contesto simile. Toscana. Lo scenario 2014 dell’oro giallo, pilastro dell’economia e terza voce dell’export della regione dopo vino e moda, oltre che simbolo della qualità del territorio, è da decimazione. Come era già evidente alla vigilia della raccolta, a causa delle tre ondate di attacchi della mosca Bactrocera Oleae, contro cui gli altrettanti trattamenti delle piante (invece dell’unico, o al massimo i due, che si fanno di solito) sono serviti a poco, il crollo della produzione (di solito 18mila quintali annui) è stato del 70%, fra olio Igp, Dop e non, con punte di oltre il 90% in alcune zone. Se in Umbria l’Ismea prevede una diminuzione della produzione pari al 45%, nella regione con la più alta incidenza sulla produzione olivicola italiana, la Puglia, si parla della maggiore emergenza degli ultimi 15 anni. Oltre le intemperie e la mosca, infatti, i coltivatori del Salento hanno dovuto fare i conti con la Xylella, il batterio killer che ha mandato in fumo ettari di oliveti. I predoni delle olive sono i protagonisti della cronaca in Liguria, in grandissima difficoltà a causa della mancanza di olive taggiasche. Qui il calo si aggira intorno al 60%, e per la prima volta in 100 anni si dovrà ricorrere all’importazione. Anche la Calabria, seconda regione dopo la Puglia, denuncia un calo dell’80%. Uno scenario devastante anche dal punto di vista economico, che ha piegato moltissime famiglie, che ora non possono far altro che sperare nella prossima annata. In conclusione, noi di Slow Food vi suggeriamo di contattare il vostro produttore di fiducia, sperando che sia riuscito a salvare parte del raccolto. Se così non fosse, controllate nella Guida agli extravergini di Slow Food Editore, i suggerimenti non mancano e troverete l’olio che fa per voi! A cura di Alessia Pautasso Natale, lo spirito giusto? Evitare sprechi ed eccessi 15/12/2014 Parlare dell’accoppiata cibo e Natale è un po’ come sfondare una porta aperta. Come per tutte le principali feste religiose, nell’ambito di ogni tipo di culto, e per molte altre tradizioni che scandiscono il nostro annuario, il legame con ciò che ci nutre è inscindibile e determinante. Il rito prevede quasi sempre cibo, oppure divieti in tal senso. È quasi banale ricordare il ramadan, tutte le feste ebraiche, ma anche come nelle religioni orientali il rapporto con l’alimentazione sia qualcosa che riveste anche una funzione profondamente spirituale, si pensi per esempio alla tipica dieta coreana, una sorta di ying e yang quotidiano tradotto nel piatto. Si prova a nutrire l’anima, oltre che il corpo. Inoltre si pratica una forma di rispetto verso se stessi e la propria comunità, tanto più nel momento in cui i riti sono condivisi. Se guardiamo al Natale è però evidente come la celebrazione sia collettivamente sfociata in una scialba parodia consumistica di ciò che la festa religiosa rappresenta in origine. Segno dei tempi. Spesso diventa una scusa per una bella abbuffata, con conseguente spreco di denaro, salute e cibo che inevitabilmente finisce nella spazzatura. Essendo agnostico convinto, non posso farmi portavoce di un richiamo ai valori che per un cristiano il Natale comporta, ma certo un po’ più di attenzione a non sprecare, a farsi del bene, alla ricerca assieme agli altri di un poco di felicità, secondo le proprie inclinazioni, attitudini e retroterra culturale, ci vorrebbe davvero. Si potrebbe, da non credente, tradurre il tutto a un richiamo per una maggiore sobrietà, ma nel senso che abbiamo precisato con Enzo Bianchi durante le Repubblica delle Idee a Reggio Emilia: «Sobrietà non come rinuncia, ma distanza dall’eccesso». Questa distanza dal vortice natalizio, fatto troppo frequentemente più di quantità che non di qualità, potrebbe intanto indurci a riflettere, a pensare per esempio a come le ricette che cuciniamo a Natale, esattamente come le preparazioni previste da tutti gli altri precetti religiosi dei vari culti o anche da altri tipi di riti a tavola (penso al thanksgiving statunitense e al suo simbolico tacchino) siano qualcosa che in varie forme le nostre famiglie hanno fatto proprie e adattato. Sono un pezzo della nostra identità singola e collettiva, personale e comunitaria, e non ci rendiamo conto abbastanza di quanto dicano di noi stessi. Svilendole, sviliamo noi e i nostri rapporti umani. In una conferenza durante il Salone internazionale del Gusto e Terra Madre, la scrittrice Claudia Roden ha ricordato come lei, assieme a tutti i rifugiati in Inghilterra dopo la Crisi del Canale di Suez nel 1956, sentisse primariamente l’esigenza di raccogliere ricette, e di raccontarle agli altri. Era tutto uno scambiarsi d’istruzioni in cucina: la mia famiglia fa così, io faccio cosà… C’erano l’urgenza e la paura di essere dimenticati, che tutto ciò che si praticava a tavola, nel convivio con i propri cari e nel contesto della propria cultura, potesse sparire per sempre una volta immersi in un’altra nazione, sradicati dalla propria casa. Mentre prepariamo il pranzo o la cena di Natale, mentre siamo a tavola con le nostre famiglie, pensiamo al valore immenso di cosa mettiamo nei piatti, a ciò che rappresenta in termini di relazioni e di appartenenza a una cultura. Custodiamolo dal diluvio consumistico che ci assale in quei giorni, raccontiamocelo mentre lo pratichiamo, anche se ci può sembrare ormai scontato. Perché alla fine è ciò che ci accomuna, nelle differenze, a tutte le altre culture del mondo; è ciò che ci rende umani, cioè esseri in grado di essere felici. È un peccato non provarci con il cibo delle feste. Carlo Petrini Perché va tanto la iceberg? 15/12/2014 Il consiglio di questa settimana parte da un fatto piuttosto sorprendente: in questo momento il tipo d’insalata più venduto in Italia è la iceberg, con la Puglia in testa tra le regioni per la sua quantità di consumo. Fin qui niente di male, se non fosse che quasi tutta la lattuga di questo tipo è prodotta in Spagna e quindi importata. Si dice Spagna ma le zone precise sono Murcia e l’Andalusia, il Sud, all’estremo opposto del Mediterraneo. Immaginate di fare compagnia sul camion a questi cespi d’insalata lungo il loro viaggio fino in Puglia: un’eternità. È davvero un fatto curioso, perché in questo momento nel Paese abbiamo produzione di verdure da foglia di quasi ogni tipo in ogni luogo, e lasciando da parte indivie e scarole che sono di un’altra specie e sono ben più amare, tra lattughe cappucce, lattughe romane e lattughe da taglio non c’è che l’imbarazzo della scelta. Forse, se si vuole cercare qualcosa con le caratteristiche più simili alla iceberg, che si distingue per dolcezza e croccantezza, potremmo orientarci sulle lattughe romane, o anche quelle ricce. Rimane un mistero se sia di più la domanda dei consumatori a decretare il successo della iceberg (quella che si mette nei panini dei fast food, per intenderci) o qualche meccanismo di distribuzione che ha, come dire, innescato le voglie degli italiani, ma proprio non si spiega perché dovremmo rifiutare i prodotti locali a vantaggio di qualcosa che proviene da duemila chilometri di distanza, con il conseguente carico di inquinamento da Tir che porta con sé e anche con una freschezza non proprio di prima mano. Tra l’altro, non si spiega nemmeno perché gli agricoltori italiani non abbiano mai adottato la iceberg (ma non è che lo consigliamo), visto che il ciclo produttivo è breve e la programmazione sarebbe più semplice che in altri casi. In Puglia, che adesso è ancora una cornucopia di buone verdure, perché va tanto la iceberg? È proprio dura capirlo, ma noi sappiamo da che parte stare: da quella delle fresche produzioni locali, colte al mattino presto prima di andare al mercato. Saranno magari più amarognole, dai gusti meno standardizzati, ma ci piace la varietà; che l’insalata non sia mai la stessa. È il momento buono per (ri)scoprire nuovi sapori: oltretutto le insalate locali, che si trovano in crisi per la concorrenza spagnola, hanno circa lo stesso prezzo (1.50 al chilo) della iceberg. Carlo Bogliotti Impariamo a costruire senza consumare il suolo 15/12/2014 S. Martino al Cimino è un borgo pianificato del Seicento, Borromini lo volle a ferro di cavallo intorno a un’antica certosa. Marostica è un borgo pianificato medievale, una scacchiera urbana collegata alla rocca da un triangolo di mura di pietra. Oggi il loro meraviglioso rapporto con la campagna è irrimediabilmente compromesso. Come tanti antichi organismi urbani, S. Martino e Marostica annegano tra le villette. Tutto è stato fatto in regola. Lo scempio è figlio anzitutto di una miseria morale, poi dell’incrocio di ricchezza e povertà: di chi investe nel mattone, di chi ha rinunciato a un’agricoltura amara e dei Comuni, sempre a caccia di un euro in più. Parliamone ora, è l’ultima occasione. È ripartito l’iter legislativo del disegno di legge sul consumo di suolo, grazie all’azione chi ha a cuore Costituzione e salute dei cittadini. Per i ministri dell’Ambiente e dell’Agricoltura il suolo va definito come fondamentale risorsa agricola e naturale, la cui distruzione – a colpi di edilizia, cave, strade, depositi, discariche – compromette la sicurezza idrogeologica, la bellezza, la produzione di cibo sano. È importante: oggi, per la legge, abitati e infrastrutture sono suolo. La pianificazione edile deve “essere pervasa da un’essenziale considerazione delle funzioni del suolo” riguardo a clima, erosione, alimenti, biomasse, riserva genetica, turismo, paesaggio e va governata in “prospettiva residuale, tenendo conto delle effettive esigenze di abitazione”. Ottime premesse; servono misure efficaci. Alcune ci sono: il coinvolgimento nel monitoraggio di Ispra-Arpa e Cra-Inea, la tutela di cascine e casali. Bisogna rafforzare quelle su mitigazione e compensazione, evitare i ricorsi sui diritti acquisiti, censire gli edifici inutilizzati, come chiede il Forum Salviamo il Paesaggio. E cancellare la proroga – prevista dalla legge di Stabilità – dell’uso  di oneri di urbanizzazione per spesa corrente. Un assurdo bancomat che preleva dal patrimonio di tutti, per distruggere la bellezza italiana. Claudio Arbib Coordinamento nazionale Salviamo il Paesaggio e Professore Ordinario del Dipartimento di Ingegneria e Scienze dell’Informazione e Matematica In foto: San Martino al Cimino (Vt), credits: wikimedia commons Da La Stampa del 14 dicembre 2014

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